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Latini e Romani (la scrittura)

Prima di parlare di vero e proprio alfabeto latino occorre precisare che in quella che ora è la nostra penisola, vi sono stati molti “ dialetti”-

Quello messapico, ossia dalla Puglia o dalla Calabria, e siculo, derivato dal greco occidentale. L'andamento dei testi è generalmente per linee sinistrorse, in Sicilia anche a serpentina. Le parole non sono mai separate.



Quello piceno ossia della regione fra Rimini e il Gargano, anche esso derivato dal greco occidentale, ma forse in parte tramite l'etrusco. L'andamento è a serpentina; fanno eccezione parecchi testi di Novilara (Pesaro), lineari sinistrorsi. La grafia è completata con punti come l'etrusco.



Ansa bronzea rinvenuta nella tomba del Duce

di Belmonte Piceno, prima metà


del VI secolo a.C.


Quello osco(Campania), umbro, falisco(a nord di Roma, stretto predecessore del latino) e latino, derivati dall'etrusco. L'andamento è lineare sinistrorso; le parole sono separate con punti. L'osco fu usato anche dai Sanniti, parlanti dialetto diverso. Il documento più importante dell'umbro e di tutte le grafie italiche, è un rituale contenuto nelle tavole eugubine o di Gubbio. Il falisco è molto simile al latino, unico sopravvissuto fra gli italici nella scrittura romana.


Scrittura latina

Quoi hon...sakros esed...recei...kalatorem...iouxmenta kapia...iouestod...

Chi [violerà questo luogo] sarà maledetto...al re...il banditore...prenda il bestiame...giusto...


Il Cippo del Foro Il Cippo del Foro è la più antica iscrizione monumentale latina, incisa sulle quattro facce di un cippo di tufo, mutilo nella parte superiore. Fu rinvenuto nel 1899 nel Foro Romano, al di sotto di una pavimentazione quadrangolare di marmo nero. Quest'ultima è da identificare con il lapis niger che secondo gli antichi autori indicava un luogo funesto, collegato alla morte di Romolo. Lo storico Dionigi di Alicarnasso ricorda l'esistenza di una statua di Romolo nel Volcanale, accanto a un'iscrizione "in caratteri greci". Infatti accanto al cippo, che reca un'iscrizione in alfabeto latino arcaico -molto vicino a quello greco- si trovano una base di colonna e un altare, che è da identificare con quella del santuario di Vulcano. · La scrittura è bustrofedica e in alfabeto arcaico di derivazione greco-etrusca (per esempio: C per G, P per R). L'irregolarità dei caratteri sembra suggerire che il testo, più che una funzione informativa per i lettori, doveva utilizzare la carica magico-sacrale della scrittura per incutere timore anche negli analfabeti. L'inizio sembra essere una formula di maledizione contro chi avesse violato il santuario.


E questa è una dedica:


E’ incisa sulla base destinata a sostenere un dono votivo al tempio della Mater Matuta dell'antica città latina di Satricum, vicino ad Anzio. Questo testo frammentario riporta il nome di un certo Publio Valerio, forse proprio Publio Valerio Publicola che fu il primo consul suffectus "console supplente" della repubblica, in sostituzione di Collatino nel 509. Publicola morì nel 503, dopo essere stato console altre tre volte.

La grafia è accurata sia per la forma regolare dei caratteri, sia per la presentazione delle righe: la seconda riga, più breve, è centrata sotto la prima. Dal punto di vista linguistico, è notevole la desinenza del genitivo in -osio, che è l'antica forma di derivazione indoeuropea (greco omerico -oio; antico indiano -asya) conservata nel dialetto falisco, ma sostituita a Roma dall'innovazione -ì, la cui origine è ancora incerta. Anche ls forma suodales (in latino classico sodales) è di derivazione indoeuropea.

A proposito di supporti, quello più usato dai romani è sicuramente la tavoletta cerata.


Se pensiamo soltanto al fatto che la frase “aliquid ceris mandare” significava affidare qualcosa allo scritto, capiamo immediatamente quanto fossero importanti per i Romani le tavolette cerate. Quelle che i Romani chiamavano genericamente cerae o tabulae erano assicelle rettangolari di legno o di avorio a margini rialzati che, spalmate di cera, tinta in genere di colore scuro, servivano alla scrittura di esercizi per la scuola, biglietti, appunti, brevi lettere, conti o anche primi abbozzi di un’opera letteraria (Giovenale, 1, 63; Plinio, epist. I 6,1; Quintiliano, Instit., X, 3, 31; Orazio, Sat., I, 10, 72-73). Esse servivano inoltre per certe pratiche magiche che ricordano i riti con le bambole voodoo: una donna esperta di incantesimi scriveva su una tavoletta il nome dell’amante, ne tracciava la figura, perforandone il fegato con un lungo ago; si dice che il rito avesse seriamente effetto sul malcapitato, che pativa dolori atroci (Ovidio, Amores, III 7, 29-30). Nel più tardo uso comune le tavolette venivano chiamate codicilli, pugillares (specialmente quelle di piccolo formato) o anche Vitelliani; sembra che questi ultimi, piccoli ed eleganti, servissero in particolar modo per lo scambio di appuntamenti amorosi (Ovidio, amores, I, 12, 1-2; Marziale XIV 8). La cera era solitamente colorata, di un colore scuro: Marziale infatti definisce le cerae tristes (XIV 5,1) e Ovidio allude al sanguinolentus color (Amores, I 12, 12), intendendo un rosso cupo, livido. Si spalmava la cera nell’interno della tavoletta, che era leggermente incavato a causa del rilievo dei bordi: in questo modo la cera vi rimaneva ben fissa. Di solito si praticava un foro nell’orlo e vi si faceva passare attraverso un cordoncino, in modo da unire più tavolette; le cerae prendevano quindi il nome diduplices, triplices, quinquiplices e così via, a seconda del numero delle tavolette di legno da cui erano composte. Talvolta esse venivano indicate anche col nome greco di diptycha, triptycha, poliptycha. L’insieme di più tavole nei primi tempi era chiamato caudex o codex (Seneca, de brev. vitae, 13, 4), che significava alla lettera tronco d’albero. Ogni tavoletta veniva spalmata di cera sulle due facce; tuttavia neldiptychon si inceravano solo le facce interne, ed esso assumeva quindi l’aspetto di un libretto: le due facciate esterne fungevano da copertina, e sulla facciata anteriore alcuni incidevano il proprio nome. Tavolette cerate degli anni 15-62 d.C., scoperte a Pompei nel 1875, si trovano oggi al Museo Nazionale di Napoli. Altre databili agli anni 121-137 d.C. furono trovate in Dacia nelle miniere di Alburnus Maior Vicus Pirustarum (oggi Verespatak in Transilvania). Recentemente sono stati scoperti ad Ercolano ben sette archivi privati, importanti per la storia dell’economia e del diritto.

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