



In questa pagina troverai un mio
racconto inedito da leggere tutto in un fiato.
In questa pagina troverai un mio
racconto inedito da leggere tutto in un fiato.
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Tutto grazie ad un post

L’auto saltellava su una strada sterrata in una zona desolata della Puglia.
“Ma come hai fatto a sbagliare direzione?”.
“Non lo so, mi sono trovato, di colpo, un cartello davanti agli occhi con la scritta autostrada, ma è quella per Napoli, dovevo svoltare a destra”
“Beh, prima o poi ci sarà la possibilità di tornare indietro o…”
Luciana si interruppe. Un inconfondibile rumore la fece voltare verso il vano del bagagliaio.
“…Mauro, fermati Rick sta vomitando.”
“O cavolo, ci mancava anche questa, devo trovare un posto idoneo, non certo qui in mezzo a questa mulattiera, anche se non c’è nessuno”.
“Sì ma sbrigati, poverino, sta proprio male.
Quel cosino nero focato chiuso nel trasportino la guardò con occhi lacrimosi, sbavando copiosamente dalla bocca.
Come era bello Luciana tornò indietro con la mente a pochi mesi prima, quando disperati per la morte della loro ultima rottweiler avevano fatto una scelta all’ovvio:
“O ne prendiamo un altro adesso o mai più”
Il dilemma non era poi tale, senza un cane la loro esistenza sarebbe stata inconcepibile anche perché negli ultimi dodici anni la loro vita l’avevano condivisa con ben 11 pelosi: Eros, Gaia e nove dei loro figli. Un’esperienza unica che li aveva riempiti di gioie, scoperte, emozioni ma anche privazioni ed angosce. Se ne erano andati uno alla volta, con malattie devastanti, che avevano devastato anche loro. Ora la casa appariva vuota ma, in ogni angolo, spuntavano ricordi, dolorosi, pressanti, di quelli che ti fanno appannare gli occhi e attanagliare la gola. Le ferite erano ancora aperte e sicuramente allevare un piccolo rottweiler sarebbe stato un ottimo cerotto, un toccasana, un nuovo appiglio positivo per la mente.
“Maschi o femmina?”
“Non ha importanza”
“Potremmo adottarne uno, ce ne sono tanti che hanno bisogno di una famiglia”
“Per ora no, forse in seguito, dopo quello che abbiamo passato, ci serve la presenza di un cucciolo di buona genealogia, scattante, vivace, che mangi con appetito e senza difetti o problemi, uno che devi sgridare perché ti rosicchia mobili e scarpe o ti fa la pipì sul tappeto. Non voglio vedere un cane zoppicante o fasciato, non voglio dargli pappe speciali o nutrirlo per mezzo di una siringa e voglio buttare tutte le medicine veterinarie che ci riempiono i cassetti”.
Presa la decisione era iniziato il lavoro di ricerca.
Luciana, aveva diverse amici amanti degli animali, anche sui social e conosceva allevatori di cani della sua razza preferita, quindi si era data subito da fare con ricerche, messaggi e telefonate. Avevano scartato subito gli esemplari nati da genitori tozzi e con il muso schiacciato, che andavano di moda al momento, preferivano linee più morbide e armoniose e , alla fine, avevano ristretto il cerchio a tre possibilità. Ora però dovevano vederli, era indispensabile il primo contatto, la prima impressione per determinare chi sarebbe stato il loro, forse ultimo compagno a quattro zampe, sapevano da sempre che era il cane a dover scegliere non loro, eppure…
Sfogliando distrattamente tra vari post con foto di rottweiler che venivano messi in vendita, Luciana fu attratta irresistibilmente da un musetto, una faccia da birbone matricolato che sorrideva con una smorfiosa bocca ma, soprattutto con gli occhi. Scattò in piedi e corse di sopra.
“Mauro, guarda” Bastò poco, si fissarono solo per pochi secondi…”E’ lui”
E per lui avevano affrontato un viaggio di oltre 1000 chilometri, con Mauro sempre alla guida perché, come al solito, all’inizio le aveva chiesto il cambio, rimandandolo poi con qualche scusa. Erano arrivati esausti, anche lei, abituata a non togliere mai gli occhi dalla strada, in ausilio a quello che per anni, oltre ad essere il suo compagno di vita era stato l’autista della loro ambulanza.
Arrivarono al bed e breakfast in cui avevano prenotato una camera, sistemarono la valigia poi, giusto il tempo di sciacquarsi la faccia e via di nuovo in strada, la frenesia di vedere il piccolo era prevalente a ogni altra necessità.
Avevano raggiunto la periferia della città, un luogo isolato, caratterizzato da stretti viottoli serrati tra quei muretti di pietre che ti fanno capire di essere nel sud. L’indirizzo non era neppure sul satellitare dell’auto ma d’istinto, erano arrivati davanti al cancello di un’ampia proprietà. Dietro quel cancello: cani.
Erano stati accolti meravigliosamente ma, chi li aveva stupiti di più era stata Irma, la mamma del cucciolotto che, liberata dal suo recinto, di corsa, si era gettata tra le braccia di Mauro, quasi lo attendesse o non lo vedesse da tempo. Luciana era sicura si fossero parlati telepaticamente, tipo: “ Ciao bellissima” “Meno male che sei arrivato, ora sono tranquilla, so che il mio bimbo è in buone mani”.
Mio caro lettore non stupirti di ciò che ho scritto e non smettere di leggere se affermo che molti umani hanno imparato a comunicare, con la mente, con i propri cani
Rick era uno spettacolo, vispo, simpatico, giocherellone. Si era avvicinato a loro velocemente, imitando la madre nel fare e ricevere coccole, poi aveva iniziato a saltare su è giù da un muretto insieme ad un complice, agile come lui ma, di un’altra razza. Ad un tratto li avevano visti tuffarsi dentro un mare d’erba, la presenza indicata solo dalle code sventolanti, e dirigersi verso la barriera che li separava dal fiero Marko, padre di Rick, che li aveva accolti manifestando palesemente la sua voglia di unirsi al gioco.
Mauro e Luciana avevano capito che quello non era un allevamento “ faccio fare tanti cuccioli e li vendo”, i proprietari di quel sito amavano i cani e se ne circondavano, fuori e dentro casa. Sì, li avevano fatti entrare in una casa talmente piena di musi e zampette da non saper più chi accarezzare o prendere in braccio.
Scemata l’euforia del primo incontro, si erano accorti di essere esausti, quindi avevano salutato i loro ospiti rimandando il prelievo del cucciolo al giorno seguente ma, l’accoglienza straordinaria, tutta pugliese, della coppia appena conosciuta, si era manifestata con un invito a cena. Si erano dimenticati cosa significava passare del tempo in piacevole compagnia, avevano trascorso un ottima serata, sgarrando sulle rispettive diete ma, guadagnando delle amicizie.
La mattinata seguente era passata rapidamente, colazione veloce e via da Rick. Lo avevano messo nel trasportino avevano abbassato un sedile posteriore e Luciana si era posizionata sull’altro in modo da tenere sempre d’occhio il cucciolo e ora…
Uffa non ci voleva, con tutta la strada che dovevano percorrere, iniziare con le vomitate non era proprio simpatico.
Per fortuna avevano preparato un borsone con tutto quello che poteva servire ad un cane di cinque mesi, beh veramente c’era anche troppo, tutto doppio, ciotole, cibo, collari, pettorine, guinzagli , distributori d’acqua e rotoloni di carte. Ecco, carta, per tutto il viaggio avrebbero usato quasi solo quella.
“Oh, l’imbocco dell’autostrada, quella giusta”
“Bene, facciamo due, trecento chilometri poi ci fermiamo in un autogrill e lo facciamo scendere… dovrà fare la pipì”
“Io, per essere più tranquilla telefono alla veterinaria”
La quale consigliò quello che sapevano già: tre o quattro soste e niente da mangiare e bere. Povero piccolo.
La prima fermata fu comica. Come era possibile che due adulti che avevano avuto, entrambi, il piacere di avere in mezzo ai piedi zampe e code fin dall’adolescenza avessero il terrore di perdere un rottweilerino?
“Otre al collare mettigli la pettorina.”
“E usiamo due guinzagli, tu da una parte e io dall’altra e…”
“Sì, ma parcheggia lì dietro dopo i camion, c’è uno spazio verde e non c’è gente, non so se è abituato alle persone”
“Già, se ci scappa qui non lo troviamo più”
Ma Rick, si fece imbalsamare tranquillamente, scese e con calma, annusò l’erba, fece un giretto non scostandosi dalle loro gambe e si accucciò per fare pipì, poi li guardò curioso quando, entrambi, emisero un sospiro di sollievo.
Luciana sorrise “Ah ah ah, sembra dica, sono io che dovevo fare il bisognino, non voi”.
“ Rick, lo sai che oggi compi un anno?”
Il grosso testone si inclinò da un lato, gli occhi le rimandarono quello sguardo furbo ed interrogativo che lei, ormai, conosceva bene.
“Oggi ti faccio la torta, intanto vuoi un biscotto?”
Il cane si precipitò verso un mobile indicando, con il naso, il cassetto giusto.
“Ecco, ora vai fuori e non correre troppo” Gli aprì il portone che conduceva al giardino e si accinse a pulire i pavimenti dove il pelo era sovrano, non preoccupandosi più del cucciolone, avrebbe corso come una saetta facendo lo slalom tra alberi, siepi e attrezzature per il verde, sarebbe andato a stuzzicare quegli abbaioni dei cani dei vicini, avrebbe rubato qualche legnetto o sottovaso e poi, sarebbe rientrato da solo poiché aveva imparato ad aprire tutte le porte.
Mauro aveva buttato dietro le spalle il complesso: Non vorrei non amarlo perché farei dei paragoni con gli altri”. Rick era Rick, intelligente, affettuoso, posato, ubbidiente, socievole con i propri simili e con le persone, pur cominciando a far intravvedere il giusto carattere di cane da difesa e… amava andare in macchina, ci era voluta parecchia pazienza ma, ora, bastava dire “Usciamo a fare un giretto” che guizzava fuori e saltava al volo su qualunque mezzo con le ruote. Luciana si guardò attorno, la casa continuava a serbare tanti, tanti ricordi ma adesso li sentiva con meno tristezza poiché lì dentro ora c’era un giovane tornado gioioso che la spazzava via. Tutto merito di un post.
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Fine di un’onorata carriera

“Sta comodo?”
“Sì, questo divano è molto avvolgente”
“Bene, la aiuterà a capire le sue sensazioni e i suoi progressi: si sentirà sprofondare o sollevare congiuntamente alle emozioni e stati d’animo che proverà”.
L’uomo guardò il professionista e il volto cordiale, i folti, ricci capelli, ben pettinati, gli occhiali saldi sul naso e il lindo camice bianco che indossava lo rassicurarono.
“Spero potrà aiutarmi dottore”
“Ora si distenda bene, tenga lo sguardo rivolto in alto o, se preferisce, chiuda gli occhi, liberi la mente e si apra, mi racconti ciò che vuole, iniziando da perché è qui”.
“Veramente non so come iniziare, ma mi creda, sono disperato, distrutto, finito, la mia carriera… oh i miei poveri avi, sa dottore? Lo era mio nonno, lo era mio padre che mi ha insegnato tutto, sono sicuro che si rivolterà nella tomba… come farò…”.
“Si calmi, si rilassi e, come prima cosa, mi dica di che mestiere o lavoro si tratta?”
“Beh dottore, non è proprio un mestiere, è un talento, una dote, un’arte direi, io sono un esibizionista”.
“Un che? Ah, mi scusi, continui, si rilassi e continui”.
“Le dicevo, dottore, che mio padre mi ha insegnato tutto, quando ho compiuto dodici anni mi ha portato con se. Che bei tempi, indimenticabili. Lui si celava, quatto, quatto, nell’angolino più buio della fermata della metropolitana di piazzale Loreto, aspettava che passassero tre o quattro ragazzette e poi zac, sbucava fuori mostrando la mercanzia. Ah, grida, rossori…mi ricordo persino svenimenti, ah che bei tempi”.
“E lei?”
“Io? Io copiavo mio padre, ero un giovane molto dotato, il mio genitore era orgoglioso di me”.
“Quindi provava sensazioni positive?”
“Sì, ero un figlio degno, in ogni senso, il mio genitore mi ha aiutato a trovare un luogo idoneo per me, in un’altra stazione in modo che potessimo esprimerci entrambi senza ostacolarci, ma poi…”.
“Poi?”
“Beh, quando è toccato a me continuare la tradizione perché il mio papà finì in galera, per qualche anno non ebbi problemi ma le cose sono cambiate in fretta”.
“In che senso? Problemi con la famiglia, di salute?”
“No, no dottore, sono i ragazzi ad essersi… snaturati, quelli che, del tutto impropriamente, vengono chiamate: le vittime, hanno cambiato atteggiamento, in modo incomprensibile, dapprima hanno iniziato a ridacchiare, soprattutto se erano in gruppo, poi a minacciarmi in maniera, direi aggressiva e poi…” un delicato sbuffo annunciò che il divano iniziava ad affossarsi “ … mi hanno deriso, hanno deriso i miei attributi, mi hanno malmenato, rincorso e spesso, oh, mi vergogno a dirlo, sono scappato via come un ignobile furfante, io, proprio io che non ho mai fatto male neppure ad un insetto”.
Il silenzio ovattato durò un paio di minuti.
“In seguito ha reagito?”
“Ho tentato, ho cercato di essere spavaldo, sicuro di me ma non è servito e allora ho cambiato piazza, per esempio un’estate sono andato al mare, sempre memore delle esperienze condivise con mio padre, ho scelto una spiaggetta un po’ appartata, di quelle in cui le famiglie cercano la tranquillità per godersi non solo bagni e sole, ma anche dei buoni pranzetti portati in un cestino e consumati sdraiati su una copertina d’emergenza. E oddio, al ricordo mi sento male...”
“Dica, cosa è successo?”
“Sono stato circondato da dei ragazzi, tutti nudi dottore, maschi e femmine, nudi come vermi e mi hanno sgridato e cacciato perché avevo l’asciugamano annodato in vita, sa, era pronto a farlo cadere alla prima occasione propizia e, non ci crederà, mentre uscivo mi sono guardato meglio attorno e c’erano sì delle famiglie, mamme, papà, bambini e nonni, ma tutti rigorosamente nudi e, mi creda, gli anziani senza nulla addosso, con cicce, pieghe di pelle e pendenze in bella vista sono uno spettacolo disgustoso Sono stato in crisi per più di un mese, non sapevo più chi fossi, mi vergognavo addirittura della mia maschilità, non riuscivo neppure a guardarmi allo specchio, non uscivo di casa poi...”.
“Poi?”
“Ho cercato di capire se ero io che sbagliavo, magari sbagliavo sempre posto e mi è venuto in mente che le persone più sensibili, moraliste, bigotte e anche, scusi il termine, con molta puzza sotto il naso sono quelle di sangue blu, i nobili insomma”.
“E’ andato ad esibirsi davanti a una contessa, a una regina?”
“Ma no dottore, cosa dice, ho scovato un collegio, qui vicino, in cui possono entrare solo figlie o parenti stretti di vip”.
“ Questa volta è andata meglio?”
“No, all’inizio ero sicuro di farcela, quelle bimbe disciplinate, tutte in fila, le loro divise blu con il collettino bianco, i capelli ben pettinati e qualcuna addirittura con le treccine mi hanno fatto ben sperare. Sono entrato di nascosto e mi sono infilato in un bagno in attesa di un soggetto idoneo. Dopo una mezz’oretta di attesa sono entrate due ragazzine, due bamboline e il mio cuore ha iniziato a battere molto in fretta, ero emozionato come se fosse la mia prima volta ma… dottore ha presente, come si chiamava Jakil e il signor Haidi?”
“Il dottor Jekyll e mister Hyde”.
“Scusi non sono un letterato, be le due bimbe si sono trasformate, si sono tolte le mutandine e, oh mi vergogno, hanno cominciato a scattarsi foto con i cellulari e parlavano dei loro ragazzi e…avranno avuto forse dodici anni. Non le dico cosa hanno dovuto sentire le mie orecchie. Lo confesso, ho fatto fatica a trattenermi per dar loro una bella sgridata, sono rimasto chiuso in uno dei bagni e poi, quando sono andate via ho vomitato”.
“Tranquillo, continui…”
“ Dottore, mi scusi, ma questo divano si affossa sempre più e…”
“Non si preoccupi Fernando, è normale, ora lei sta ricordando ciò che lo assilla, che le fa male. E’ il primo passo per liberare animo e mente da quello che la opprime, dopo si sentirà meglio, svuotato da un peso che le impediva di prendere delle giuste decisioni e potrà affrontare, con il mio sostegno, il domani consapevolmente e più serenamente”.
“Bene, ma è sicuro che potrà aiutarmi? Io ho bisogno di ritrovare me stesso, di riavere le soddisfazioni di un tempo”.
“Credo che il percorso non sarà breve, ci vorranno alcune sedute, ma vedrà che troverà, dico troverà perché sarà lei a farlo, la soluzione migliore per la sua vita”.
Fernando sospirò poi continuò a rievocare:
“Prima di considerare la possibilità di farmi aiutare da qualcuno, perché sono ridotto molto male, non dormo, non mangio, ho tentato un’ultima carta: le suore”.
“Si è infiltrato in un convento?”.
“O no dottore, non mi sono travestito da suora, ho fatto tutto perbenino, con la scusa, che poi non era tale, di voler avere un sollievo per la mia anima, sono riuscito a entrare, per un ritiro spirituale, nella Badia Celeste, governata solo da monache”.
“Continui”.
“Non è stato facile, il luogo sacro mi toglieva l’ispirazione, non trovavo il momento, così mi sono adattato ai ritmi giornalieri fatti di preghiera, di meditazione e pasti frugali…”
“Ha smesso di sentirsi un’esibizionista?”
“O no, mai, è insito nel mio essere, mi sono tranquillizzato, mi sono goduto la quiete del convento sempre aspettando l’occasione giusta per rivelarmi finché… mi è crollato il mondo addosso”.
“Non mi dica che anche le suore…”
“ Sì, glielo dico. Una sera attraversavo un corridoio sul quale si aprivano le celle delle religiose, mi stavo recando in fondo, nel settore riservato agli ospiti. C’era un silenzio totale, neppure il brusio di una preghiera mormorata nell’angusto spazio di una cella ma, giunto alla fine, davanti all’uscio della saletta riservata a rapide riunioni, udii ridacchiare, sospirare e altri suoni tipo: uhhh, ahhh; ebbi una premonizione e mi vennero i brividi. Spinsi con cautela la porta che incautamente o chissà, forse appositamente per permettere ad altre sorelle di entrare, non era stata chiusa e spiai attraverso la fessura del battente. Tre suore erano intente a guardare un video che mostrava due tizi nerboruti intenti a misurare la rispettiva virilità. Buon Dio, mi capisce? Capisce ora che dramma sto vivendo?”
Tac, tac, tac, tac, il ritmico suono provocato da un lapis battuto su un foglio riempì il silenzio della stanza.
Il paziente aprì gli occhi e girò la testa, ormai quasi incassata nei troppo soffici cuscinoni del lettino, verso il medico sussurrando: “Scusi, questo rumore mi distoglie, mi…”. Ma rimase a bocca aperta.
Lo psicologo era seduto su una poltroncina con le ginocchia divaricate, aveva un taccuino in una mano e una matita nell’altra ed era nudo.
Senza scomporsi minimamente l’esimio professor Svienghi, spiegò: “Ho l’abitudine di immedesimarmi nei miei pazienti”.
Ferdinando venne inghiottito dal divano.
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Punizione
Yolù era stanco, erano quattro isee che sedeva ai comandi della vettura terricola che avrebbe portato lui e la sua famiglia a Doxinthouk dove viveva la bisnonna paterna. Il viaggio era stato, finora, tranquillo, lo stradone extracittadino a sei corsie era quasi sgombro di traffico e lo sfiorare il visore per controllare i sistemi di itinerario non era un lavoro pesante o di concetto ma, forse era stanco proprio per questo: era annoiato. I gemelli, dopo aver passato la maggioranza del tempo a giocare a zoztlot con il tridimensionale istallato nella parte posteriore del vano passeggeri si erano addormentati sdraiati comodamente nelle ciambelle letto. Sua moglie guardava fuori. Aveva lo sguardo fisso davanti a se, impegnata a vedere… cosa? Ah lui lo sapeva bene cosa. Da quando i loro vicini di casa erano tornati dalla punizione, aveva il terrore di viaggiare. Decise di scuoterla.
“Perché non ti rilassi un po’, sei rigida come una statua”.
“Lo sai perché, possono essere ovunque”.
“Oh, finiscila, non vedi che non c’è quasi nessuno, credo proprio che oggi saranno impegnati altrove”.
“Ecco, è questo che non sopporto di te, sei di una leggerezza incredibile…”
“Ma che leggerezza, è buonsenso.”
“E tu lo chiami buonsenso? Hai visto la faccia di Grahsa quando è tornata. Pallida, smagrita e poi tremava a ogni sussurro, a ogni alito di vento…”
“E’ sempre stata paurosa…”
“Ma dai… cosa dici. Anche Arneek è cambiato. Cupo, taciturno”.
“Bah, non mi sembra che siano stati torturati o che abbiano patito la fame, Armeek ha ancora una bella pancetta…”
“E che ne sai? Non parlano, non possono parlare di ciò che gli hanno fatto altrimenti… li verrebbero a riprendere subito”.
“Bah, potrebbe essere stata una vacanza…”
“Smettila, mi fai paura, smettila!”
“Oh, Fuanhà mi hai scocciato, sai che ti dico?...”
L’uomo disinserì il pilota automatico. La vettura sobbalzò e acquistò velocità.
“No, no, nooo, cosa fai?”
Kamel e Dorik si svegliarono di soprassalto unendo le loro voci impaurite a quella urlante della madre.
“Oh, oh, piantatela, tutti e tre, mi fate scoppiare la testa, ecco, contenti?….” il mezzo rallentò e rientrò nei confini della propria corsia ma Yolù ne mantenne il comando “… visto? Non è successo nulla”.
Kamel non era d’accordo e, piagnucolando, lo espresse chiaramente: “ No, padre, no…ci fermeranno, cattureranno e ci metteranno in una gabbia insieme ad un grosso Wuki che ci mangerà lentamente…”
“Ma che dici?” protestò il fratello “Non ci faranno morire, vedrai, la strada si aprirà e noi sprofonderemo, giù, giù…”
Invece, arrivò dall’alto. Talmente improvviso da congelargli le urla nella gola, da bloccare i loro occhi spalancati in un istante d’incredulo smarrimento.
Una saetta, una violenta tromba d’aria o… non riuscirono a capirlo, troppo lacerante lo sconvolgimento di tutti i sensi poi, per un attimo, il tempo sembrò fermarsi. Fu come essere intrappolati in una bolla liquida e ovattata, ma pochi secondi più tardi i loro corpi furono squassati da un rumore assordante e doloroso, ma la sensazione più sconvolgente fu quella di sentirsi ridotti in polvere, stracciati in nanoscopici atomi e risucchiati, da un potente, crudele, inflessibile aspiratore su, su verso un cielo che aveva un solo colore: nero.
Quel manto di oscurità li avvolse, come un abbraccio calmante, ma fu riempito, subito, da una voce , stentorea, solenne, decisa e imperativa.
“ Voi, miserrimi, avete disobbedito, coscientemente disobbedito. Avete trasgredito una delle regole inviolabili del nostro mondo e, per questo, sarete puniti. Sarete trasportati in una terra straniera dove, comprenderete ben presto, quale stupidità è stata cadere in simile peccato e quale grande fortuna vi sia stata concessa nel nascere su Equor. Sarete impegnati in un solo compito, non sentirete la fame né la sete, non avvertirete altri bisogni, neppure quello di dormire. Il vostro giorno non avrà mai fine perché ricomincerà sempre daccapo, sarò io, solo io, che giudicherò se e quando il vostro animo sarà redento e porrò fine alla vostra espiazione”.
La voce si spense lasciandoli tremanti poi….il risucchio, questa volta, fu verso il basso.
Fu come destarsi dopo un brutto sogno, ma non per la cantilenante , dolce voce dell’avvisatore automatico del mattino, la loro sveglia fu un brusio, sempre più intenso che divenne chiasso.
Yolù sospirò di sollievo, erano ancora nella vettura ma…
“ Ahhh, dove siamo…” farfugliò Fuanhà stropicciandosi gli occhi “…Kamel, Dorik state bene?”
“Sì mamma, ma siamo così scomodi e…stretti”
Il padre si guardò attorno, i comandi automatici erano spariti, davanti a se aveva un ridicolo oggetto circolare su cui aveva appoggiato le mani e, sotto i piedi una sorta di leve da pestare che stava usando per guidare come se fosse una cosa del tutto naturale e….
“Ohhhhh ma ti dai una mossaaa, razza di lumaca ma chi ti ha dato la patente”
Un energumeno munito di casco stava bussando su un finestrino insultandolo in una lingua non sua, che lui però capiva perfettamente. L’uomo (almeno, sembrava di genere maschile), a cavalcioni di un rombante veicolo, dopo, avergli indirizzato un gestaccio si allontanò lentamente zizzagando nel traffico
Trffico?
Erano in mezzo ad un mare di traffico, imbottigliati tra centinaia di mezzi che si muovevano grazie a delle ruote. Mezzi piccoli, simili a scatolette e poi, qualcuno molto più capiente in cui erano ammassati una settantina, e forse più, individui esasperati, sudati, stanchi, rassegnati. Ma era il rumore che primeggiava su tutto, una cacofonia di suoni, impressionante.
Un ululato penetrante e ritmico si materializzò dietro di loro, delle luci lampeggianti penetrarono fin dentro l’ abitacolo… Yolu capì che doveva spostarsi, seguì l’esempio degli altri appiattendosi accanto al veicolo di destra. Un tipo vestito di nero si materializzò in mezzo a quel caos e tramite di un oggetto con un bollo rosso cominciò a frustare l’aria.
Guardò sua moglie, che, come allucinata scrutava attraverso i vetri. “Ci ha mandati in mezzo a dei pazzi e diventeremo così anche noi, guarda quelli.” Un tizio aveva spalancato la portiera della sua auto e batteva pugni sul cofano di quella che lo precedeva gridando “ idiotaaaa, perché hai frenato, guarda la mia macchina nuova…”
“E’ l’inferno, sì, deve essere l’inferno, vedi è solo colpa tua”
“Ok, ok, però non ricominciare, per favore, anche voi ragazzi, niente piagnistei, dobbiamo stare calmi ed essere uniti per uscire da questa situazione. Che cosa ha detto quella voce? Dobbiamo imparare la lezione? Ok, prima si comincia e prima si torna a casa. Animo, io, non so perché ma so pilotare questa scatola di latta, andiamo avanti e vediamo cosa succede, tutti d’accordo?”
Il consenso gli giunse muto.

Fu così che iniziò la loro odissea. In teoria, partivano all’alba e, dopo qualche minuto di scorrimento, s’incolonnavano alle orde di automobilisti forsennati che, in quella città, di quel pazzo pianeta, tentavano di raggiungere le occupazioni del loro scopo di vita. S’intrufolavano tra le lamiere degli esausti mezzi di trasporto che, spesso, recalcitravano per il troppo sfruttamento, bloccandosi e costituendo, così, altri elementi di ostacolo alla circolazione e trascorrevano quasi l’intera giornata in mezzo a quei flussi per fermarsi, sempre in teoria, quando il buio era cacciato via dalle illuminazioni artificiali e poi…ricominciavano daccapo.
Yolù procedeva sicuro, come se avesse affrontato quella prova da sempre, guidava seguendo l’istinto come se avesse una meta, tra strette strade, su intricate larghe tangenziali, in vecchie vie lastricate di antichissimi logori pavé, accompagnato dal brusio, dallo stridio, dal frastuono, dal lamento del nervosismo scaturito dal caos.
I gemelli impararono a passare il tempo con giochi antichi: chi vedeva il maggior numero di auto di un certo colore, chi faceva la somma più alta con i numeri di targa e usavano le mani, dita, palmi aperti, pugni chiusi reinventando diletti primordiali e poi scoprirono di saper cantare strappando le orecchie dei genitori dall’attenzione ai rumori esterni.
Fuanhà, si lamentava sempre di meno finché Yolù la sorprese a sorridere.
Chissà cosa stava pensando.
Be, lei si era accorta che qualcosa di positivo c’era, quel luogo: aveva un cielo bellissimo, soprattutto al tramonto, anche gli edifici non erano male e, soprattutto, lei si stava riposando, non doveva occuparsi della programmazione della casa né della gestione educativa dei figli, non doveva spremersi la mente per calcolare gli obbligatori dieta-menù settimanali e soprattutto era per lei un sollievo non doversi recare al quotidiano noioso lavoro di collaudatrice dell’abbigliamento dei negoziatori esteri…quasi quasi, sperava durasse a lungo
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Gola
Gli avevano dato la dritta giusta: la villetta bifamiliare, a quell'ora, era avvolta dal silenzio. L’alta siepe, che separava l’abitazione della vecchia da quella del suo vicino, era una vera barriera anti rumore. Il cancello d’ingresso, invece, non aveva proprio nulla dello schermo, scavalcarlo fu un gioco da ragazzi.
Il vialetto non era illuminato ma, lui era abituato all'oscurità, la notte era sua complice, sua amica.

Ignorò il portoncino principale, fece il giro di un lato della casa dove, dalle imposte chiuse delle due finestre non filtrava alcuna luce. Sul retro però, il chiarore di una lampadina proiettava l’ombra della portafinestra sul pavimento di mattoncini che lastricava “l’area barbecue”.
La portafinestra era socchiusa e il suono di un televisore tenuto a bassissimo volume rivelava la presenza di qualcuno. L’uomo sgusciò, furtivo, all’interno.
Una massa di capelli candidi sbucava da sopra la spalliera della sedia a dondolo. L’anziana donna stava sferruzzando.
Lui con la mano destra afferrò saldamente quella chioma sollevando dal suo scanno l’esile donna, con la sinistra le tappò la bocca prima che l’urlo, che le si era fermato come un pugno nello stomaco, avesse la forza di uscire. Poi la trascinò fino alla parete, la mise con le spalle al muro e fissandola con occhi torvi attraverso la calza di nylon che distorceva demonicamente i suoi lineamenti, le sussurro con voce ferma:
“Dove tieni i soldi?”
Il volto della vecchia divenne più bianco dei suoi capelli ed il suo corpo si afflosciò come un palloncino svuotato dell’aria.
Lui la scosse più volte, come fosse un pupazzetto di pezza, poi le mollò un ceffone gridando:
“E no, non puoi crepare adesso, prima voglio i tuoi soldi”.
Un flebile lamento ed il socchiudersi delle palpebre preannunciarono che Elvira aveva ripreso conoscenza.
Il malvivente sospirò di sollievo.
“Bene, chiariamo subito come stanno le cose. Io ti posso fare male, molto male, posso farti soffrire lentamente, un po’ alla volta a meno che… tu non mi dia subito tutti i tuoi oggetti preziosi e…i soldi naturalmente. Mi hai capito?”
La donna annuì chinando la testa poi, dopo un gemito, riuscì a dire.
“In camera da letto”.
La stanza era deliziosa: mobili in legno massello di “quelli di una volta”, copriletto in pizzo con cuscini coordinati color rosa confetto. Tendine ricamate e graziosi ninnoli, ognuno posato su un centrino fatto ad uncinetto. Un enorme orso di peluche sedeva imperterrito su una poltrona impossibilitato a difendere Elvira.
Lui la getto sul letto strappandole un “ahi”.
“Dove?”
“Nel primo cassetto del comò, sotto la biancheria…” rispose lei singhiozzando.
“No eh, non voglio sentire piagnistei, m’infastidiscono, mi fanno diventare nervoso e cattivo” asserì l’uomo mentre scagliava in terra il contenuto del cassetto. Un intenso, aromatico profumo si sparse nell’aria. All’anziana donna piaceva rinfrescare l’intimo con qualche goccia di acqua di colonia.
“Solo duemila euro e qualche spiccio… non dirmi che non hai altro… vediamo cosa c’è qui in fondo… ma che bella scatola… oh un bracciale d’oro, una collana di perle… belli questi orecchini e questa spilla. La scatola te la lascio ah ah ah ah ah”. Rovesciò i gioielli in un sacchetto estratto da una delle tasche dei Jeans.
“ E adesso, mi è venuta fame. Dov’è la cucina?” chiese prendendo la vecchia per un braccio e spingendola nel corridoio.
“Ahi, ahi”
“Smettila ti ho detto o ti caccio la tua stessa lingua giù per la gola”.
“Allora cosa nascondi qui? Di solito le vecchie usano i barattoli. Che dici di quelli lassù?”.
In pochi attimi riso, farina e zucchero si mescolarono insieme sul pavimento seguite da sale, pastine per minestre…
“No, no…” protestò lei.
“O basta, mi hai scocciato”. Le rifilò una sberla, la fece sedere di forza su una sedia, le torse le mani dietro la schiena strappandole un urlo e lacrime di dolore e la legò ben stretta usando del nastro telato che aveva con sé. Con lo stesso nastro le tappò la bocca.
“Mi merito un po’ di pausa”.
L’uomo aprì il frigo ma non vi trovò nulla di suo gusto poi, in un angolo, scovò due bottiglie di lambrusco, si arrotolò la calza fin sopra il naso, svitò il tappo di una e, attaccandosi direttamente al collo, la svuotò per metà.
“Ahhhh, ci voleva…” sospirò pulendosi la bocca cl dorso di una mano “… ma cosa vedo, ma che brava nonnina, mi sa che tu aspettavi la mia visita e sapevi che mi piace il pesce”. Si avvicinò al lavello dove, in un piattino di carta, l’argentea pelle lucida di una dozzina di alici mandava riflessi invitanti.
“E sono anche fresche… perché mi guardi con quegli occhi sbarrati? Io me ne intendo sai, si può dire che sono nato su un peschereccio, il pesce lo mangio crudo”.
La donna si agitò.
“Cos’hai? Hai paura che il tuo micetto rimanga senza pappa? Lo so che hai un gatto, mi sono informato ma, a quanto pare, è più furbo di te, se ne sta alla larga, be, mi spiace ma ho fame”.
Reclinò la testa indietro, afferrò un pesciolino per la coda e se lo cacciò avidamente in bocca”.
Elvira mugugnò, tentò di liberarsi e rovesciò se stessa a la sedia sulle piastrelle bianche e nere della cucina.
Il giovane con il cane stava finendo di dare la sua deposizione ad un poliziotto che scriveva febbrilmente su un notes.
“… stavo facendo il solito giro serale con Rocky, quando ho visto tutte le luci accese nella casa di Elvira, sa, lei non lo fa mai… intendo accendere le luci, per risparmiare, poi ho sentito un urlo e lui…” accarezzò la testa del pastore tedesco “…si è lanciato lì, verso il cancello, allora vi ho telefonato e, per sicurezza, ho chiamato anche il 118…” entrambi gli uomini si scansarono per lasciar passare due soccorritori, provenienti dal vialetto della villetta, che spingevano una barella. Un ammasso di tubicini che portavano ossigeno e liquidi vitali sparivano sotto il lenzuolo dove giaceva un corpo. La lettiga fu issata velocemente sull’ambulanza che attendeva a porte spalancate e lampeggianti accesi. I portelloni si richiusero sbattendo ed il mezzo di soccorso si avviò a sirene spiegate verso il Pronto Soccorso del paese limitrofo.
L’agente chiuse il taccuino, attese che l’ululato dei dispositivi acustici si attenuasse poi, congedò il testimone.
“Grazie, la chiameremo se dovessimo avere ancora bisogno di lei” e si diresse all’interno dell’abitazione.
Sul tavolo della cucina erano sparse garze, disinfettanti e contenitori di ghiaccio istantaneo. Il medico ripose nella sua borsa l’apparecchio misura pressione e, sentendolo arrivare, si girò verso l’agente sorridendo.
“Anche la pressione è buona, in ogni modo le ho somministrato un tranquillante. E’ una donna forte, ha solo qualche escoriazione e delle ecchimosi, però è anche cocciuta; non vuole andare in ospedale. Comunque sta arrivando il figlio”.
“Bene signora Elvira, questa notte la lasceremo nelle mani di suo figlio, però mi deve promettere che domani si farà fare un controllino più accurato in Ospedale”.
La donna si asciugò una lacrima con un grosso fazzoletto ormai del tutto inzuppato e gemette:
“Sì, sì, signor agente ma, io non volevo, ho cercato di dirglielo ma, mi aveva messo quello scotch sulla bocca e…”.
“Stia calma, è lei la vittima, quello è un vero delinquente, era da tempo che cercavamo di pizzicarlo, lei è stata fortunata, altre donne non se la sono cavata solo con qualche graffio…”.
“Oh, ma mi dica morirà?”
Il poliziotto guardò con aria interrogativa il medico che si limitò ad alzare le spalle.
“O mio Dio, se dovesse succedere una cosa del genere, non avrei più pace per tutta la vita…”.
“Signora Elvira…” continuò l’appartenente alle forze dell’ordine “… lei non ha nessuna colpa, quel farabutto ha fatto tutto da solo e se dovesse accadere il peggio è come se fosse morto un insetto, una bestia nociva…” si pentì subito di quelle ultime parole.
“Ahhh, è stata la Carla sa, io avevo provato in tutti i modi ma, avevano cominciato a distruggermi anche il legno, la carta le scatolette di cartone e il gatto o, il gatto scappava, povero piccolo, poi, un giorno mi hanno mangiato un’acciuga e, c’era qui la Carla a prendere il the ed è lei che ha avuto l’idea. E’ andata in un supermercato apposito non so…un nome con qualcosa di agricolo…be, insomma ha preso quelle bustine, si è messa i guanti, le ha aperte e, con il contenuto ha riempito la lancia di quelle acciughe che erano là…” con un dito tremante indicò il piattino di carta e l’unico pesce rimasto, contenuti in una busta trasparente per reperti. “… domani le avrei portate in cantina. Io non sapevo, non potevo sapere che quell’uomo si sarebbe mangiato il pesce e…il veleno per i topi”.
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Libertà?

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Risveglio
Brivido.
Cominciò a riavere coscienza di sé, qualcosa o qualcuno lo stava rianimando. Era una forma di calore, un raggio debole ma sufficiente a stemperare il glaciale freddo che lo avvolgeva. Il sole stava compiendo uno dei suoi miracoli nel concedergli di tornare, ancora una volta, in vita. Aveva sempre amato le alte temperature, le associava al colore rosso, il colore del sangue, delle stragi e lui era un vero sterminatore.
Il suolo ebbe un sussulto, rumori riconducibili a strappi violenti, a crepe improvvise, ad attriti e slittamenti e… si liberò definitivamente dal torpore. Che territorio era mai quello? Una landa bianca e desolata. Ghiaccio, soltanto ghiaccio sopra, sotto e ai lati. L’unica eccezione era uno squarcio blu, delimitato da cime trasparenti simili a stalagmiti, da dove il timido emissario dell’astro amico era riuscito a regalargli una via d’uscita. Come aveva fatto a raggiungere quel luogo? L’ultima vaga immagine che rammentava era quella di un grosso, goffo animale che, gettatosi in mare, da provetto nuotatore, aveva acquistato una grazia e una sinuosità inimmaginabili. Di sicuro aveva aggredito quello strano essere e ne aveva fatto una delle sue vittime ma, non ricordava altro di quella parte d’esistenza. Ne aveva chiaro, però, tutto il resto.
Aveva affrontato e debellato un’infinità di creature, dalle più deboli a quelle che credevano di avere il mondo in pugno. Tra le sue prede vi erano stati giganti, protetti da scudi cornei impenetrabili alla lancia del più consumato guerriero eppure, lui e la sua stirpe erano stati capaci di cancellali dalla faccia della terra.
Che bei tempi e che natura amica, bollente, appena screziata di verde ma, principalmente avvolta da tinte sanguigne.
Le stragi che preferiva erano quelle d’intere popolazioni. Eccezionalmente, nonostante i suoi tentativi qualche singolo individuo era riuscito a sottrarsi ai suoi agguati mortali, rimanendo leso, malconcio ma, vivo. Spesso, però, era stato fortunato, aveva debellato tutti, estirpando persino il ricordo di alcune etnie.
Doveva ammettere che con il passare del tempo i suoi nemici avevano trovato nuove armi contro di lui. Scienza e tecnica gli erano state lanciate contro e… qualche pezzo della sua progenie era caduto sul campo.
Uff, doveva trovare il modo di uscire da quella gabbia gelata dove era rinchiuso da chissà quanto. Aveva sete di sangue, voglia di uccidere, voglia di crogiolarsi tra distese di gente agonizzante: uomini, donne, bambini…
Per tornare attivo aveva bisogno d’aiuto e su quella estensione di ghiaccio non c’era nessuno no, un momento… una grossa forma oblunga schizzò fuori dalla linea dell’orizzonte portando con sé una miriade di spruzzi d’acqua (il che faceva presupporre che fosse uscita dal mare).
Ma sì, era quell’inconsueto animale, oblungo e lucido, due vispi occhietti in una testa piuttosto piccola, baffi sottili, zampe anteriori simili a grosse pinne e coda da sirena. Be, di sicuro non era proprio lo stesso che l’aveva portato in quell’inospitale luogo ma un discendente, un figlio, un pronipote …oh, si rammaricò: di sicuro non era riuscito a debellare quella razza, forse era colpa della temperatura, doveva assolutamente trovare un territorio più caldo.
“Su bello, vieni, avvicinati, vieni, trascina il tuo corpo fin qui. Non sei curioso di sapere cosa sia nascosto in questa fenditura?”
La foca però, si girò sulla schiena, sbattè le amorfe zampine poi allungò il capo all’indietro, e rilassò le membra beandosi del tepore del sole.
Pazienza, ci voleva pazienza e lui ne aveva, sapeva attendere era una delle sue doti, oltre a quella di essere, in sostanza, invisibile. Forse la sua arma vincente era proprio l’invisibilità. Agiva di soppiatto, inaspettato, s’intrufolava nei più piccoli pertugi, attendeva, attaccava, si espandeva, arroventava il malcapitato e poi lo dissanguava. Era un superlativo killer, uno dei migliori e probabilmente, ora, il più ricercato da chi attraverso le sue capacità, ambiva disfarsi di rivali, per sete di potere, di vendetta o per odio.

La foca si girò su un fianco, si grattò insistentemente sotto il mento con una delle pinne, poi si riadagiò supina e parve addormentarsi.
“Se dovessi essere costretto a contare solo su di te, ho paura che trascorrerà un secolo…”.
Non era possibile che non vi fosse altra forma di vita, a meno che la follia di qualche umano avesse prevalso e, dopo vari infruttuosi tentativi compiuti in passato, il pianeta si stesse estinguendo congiuntamente al suo carico di vite. Forse la Terra era tutta così: un involucro di ghiaccio e acqua. In questo caso anche lui era spacciato, il suo risveglio era stato una presa in giro.
La foca aprì un occhio, alzò il capo annusò l’aria.
Un piccolo siluro bianco e nero guizzò fuori dall’acqua atterrando sulla lastra nivea ben eretto su due appendici palmate. Oh, non era un siluro ma un buffissimo bipede che, appena intravisto il mammifero sdraiato, fece dietro front e sparì da dove era venuto.
La foca, con un impensabile, rapido scatto, gli corse dietro.
Era di nuovo solo.
Si predispose a una nuova attesa.
Forse sarebbe stato meglio sprofondare ancora in quel letargo che l’aveva attanagliato per un’eternità ma, ormai si sentiva vigile e pronto all’azione, assurdamente impaziente. Sentiva un impellente desiderio di rigenerarsi e di prolificare conscio di essere, quasi certamente, l’ultimo del suo ceppo.
Avvertì un cambiamento.
Un centinaio di quei buffi esserini bianchi e neri, come sputati ad uno ad uno, saltò fuori dalla piatta, calma superfice marina e si dispose, in fila indiana, sulla piatta, calma superfice gelata. Muovendo all’unisono le corte zampette palmate, parvero esibirsi in giri di danza ritmati dal leggero movimento delle pinne anteriori, poi si quitarono, si smembrarono in coppie o in piccoli gruppi e iniziarono a compiere riti più familiari, pulendosi a vicenda o strisciando le appendici boccali in affettuosi surrogati di baci.
Uno degli individui più giovani, improvvisamente, si staccò dal gruppo, salì, ondeggiando, sopra una collinetta e si buttò, scivolando sulla pancia arrivando a lambire i dintorni del pertugio in cui lui era acquattato.
“Dai bello su, coraggio, bastano solo pochi metri, vieni cocchino, vieni”.
Ma il piccolo pinguino, contento di quel gioco, corse di nuovo sull’altura e ripeté la sua impresa per un paio di volte interrotto, poi, dal richiamo di un anziano che lo riportò nei ranghi.
“Accidenti, il sole tra poco si scorderà di me e destinerà i suoi raggi ad altri compiti e quei paperotti in frac hanno tutta l’aria di voler occupare il loro tempo a sbaciucchiarsi e a concepire, se dovesse calare la notte sarei fregato e questa volta per sempre, il gelo di questo posto mi ridurrebbe ad un misero terribile ricordo. Se potessi piangere, lo farei…”
La luce sparì all’improvviso, qualcosa aveva tappato la fessura che collegava il suo rifugio con il resto del mondo.
Lui non fu pronto a capire (forse colpa del gelo) che si trattava di un occhio e così perse una stupenda occasione perché quello sguardo indagatore, dopo aver scrutato, per pochi attini, quel pertugio, non trovandolo degno di ulteriori indagini si ritrasse.
Era finito, morto. Distrutto. Ironia della sorte, proprio lui: il distruttore.
Ma, cos’era quello? Una forma lunga, arcuata, ma lievemente tondeggiante, aveva preso il posto dell’occhio, otturando tutto il varco.
Ah, un becco. Bocca e naso erano i transiti ideali per intrufolarsi in un organismo e, questa volta, lui non esitò, alla prima inspirazione si lasciò trascinare docilmente. Penetrò nel sistema respiratorio e si sentì subito un leone. Tra poco sarebbe riuscito, attraverso linfa e sangue a raggiungere le cellule di quell’individuo, ne avrebbe paralizzato il sistema immunitario, avrebbe innalzato la sua temperatura a valori insopportabili, lo avrebbe fatto tremare, piegare dal dolore, sanguinare da ogni orifizio ed infine lo avrebbe ucciso ma, cosa più importante, avrebbe contagiato non solo i suoi simili ma chiunque si fosse avvicinato a lui.
E’ vero, scusatemi, non mi sono presentato:
Io sono H8Q4, ovvero un mortale, epidemico Filoviridae virus, il più terribile apparso sulla terra, mille volte peggiore di quello che gli umani chiamano. EBOLA.
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Il valore più importante
“ Dai sorteggiamo… mettiamoci come prima… uno, due, tre… vediamo cinque e tre otto, nove, dieci e dodici… comincio da te. Uno, due,….dodici, oh tocca a me, dai estrai”.
“Due”
“Oh la lattierina, che bello, ora a Milena…”
“ Numero cinque”
Le orecchie di Luciana si rifiutarono di sentire ancora, si estraniò da quella tragicomica commedia recitata da persone con i capelli bianchi (più o meno tinti) e si mise a passeggiare per il salone, sfiorò il pianoforte con un dito lasciando un solco lucido privo di polvere, ammirò il lungo tavolo di legno massello, intarsiato ed abbellito da piedi a zampe di leone. Il ripiano, ingombro di oggetti, era traforato in vari punti dai buchi dei tarli. Ricordò sua nonna che, con incredibile pazienza versava petrolio nei fori per sgominare quegli insetti divoratori e le sovvennero le mangiate domenicali quando tutta la famiglia compresi zie, zii, cognati e nipoti si sedeva a quel desco per abbuffarsi in allegria con i manicaretti che le donne di casa avevano preparato fin dal giorno precedente. Com’era cambiata quella stanza. A parte gli antichi mobili era sparito il soffitto a cassettoni, ristrutturato in un anonimo bianco, non c’era più il mastodontico, affascinante lampadario a gocce di cristallo che la sua mamma, da ragazza aveva il compito di pulire salendo sul tavolo e poi su una scala. Eh sì, l’altezza dei locali di tutto quel complesso era quasi il doppio di quelli moderni. Anche la pesante, elaborata stoffa da parati aveva dovuto cedere l’onore di coprire le pareti alla solita carta color panna sporca. Persino i vetri delle finestre, una volta formati da tanti cerchi, tipo fondi di bottiglia, che creavano giochi di sfumature ambrate su tutti gli arredi, ora facevano entrare la luce solare attraverso una limpida trasparenza. Mancava la solennità, mancava il valore storico di un edificio che era il frutto di fatiche d’intere generazioni. Del resto quel luogo era stato depredato, saccheggiato da avidi vampiri che avevano violato anche l’intimità dei cassetti di sua zia: quelli degli ori (evaporati) quelli dei corredi preziosi, delle stoviglie di ceramica, dei cristalli…ah era stato molto comodo dare la colpa alle badanti che si erano susseguite negli ultimi anni nel…”
“ Luciana a te la zuccheriera stile inglese. Ti piace?”
Che domanda idiota “Sì, sì certo”.
“ Scusate…” il curatore testamentario si alzò da una delle sedie di consunta pelle borchiata “ Sospendiamo un attimo, vado in bagno”.
Lei ne approfittò per aprire un cassetto e turbarsi ulteriormente. Tirò fuori un mazzetto di folto, perlopiù ingiallite dal tempo, e le studiò ad una a una: una Luciana in fasce, una da bambina smorfiosa, una a colori di sua zia (forse l’ultima). Suo fratello Fabio (morto a sedici anni) con il viso di un sorridente bimbetto dagli occhi grandi. Sua madre, bellissima e abbagliante nell’abito da sposa sottobraccio ad un commosso nonnone. Un nonno giovanissimo in divisa militare, pantaloni alla zuava e cappello alla francese che gongolava accanto alla nonna con l’alta figura avvolta in un austero abito nero. Trasalì, il cartoncino che aveva ora tra le dita riproduceva i nonni sulle alture di Tolfa, imbiancate di neve, ambedue erano in abiti inventali, lei aveva perso snellezza, era ingombrante e la data con dedica, che ancora si leggeva, in alto, rivelava il perché: 1926. Era incinta di sua madre.
“Posso prenderle?” superò, con il tono della voce, il cicaleccio che la circondava.
“Fai vedere, fai vedere…ah sì è roba della tua famiglia, tienile pure” Marisa si allontanò riportando l’avida attenzione sugli argenti.
Che assurdità dover chiedere il permesso, a gente che appena conosceva o che non conosceva affatto, per recuperare “roba della sua famiglia”. Perché tutto il resto di chi era?
“O zia, ora so perché tu, donna allegra, positiva e gioviale fino all’ultimo dei tuoi giorni, lì, impietrita nell’ora della morte, avevi quella smorfia di disgusto che ti deformava le labbra. Era una smorfia di postuma comprensione.” Disse a se stessa.
Si girò a sinistra e il suo sguardo si attaccò alla scultura lignea del leone che, imprigionato nella sua base di marmo stava immobile, forse da quasi un secolo, sopra una cassapanca intarsiata.

“Quel leone, l’ho detto più di una volta, me lo porto via, me lo ha promesso mia nonna…”
“Non c’è problema.” Disse Arnaldo di ritorno dal suo giretto forzato dal bisogno corporale.
“Fai pure…” fece eco il cognato. Milena alzò le spalle “Per me…”
“E no…” gridò Marisa girandosi di scatto “...qui siamo tutti uguali, se proprio lo vuoi, quando venderemo i mobili, tratterremo il suo prezzo dalla tua quota oppure rinuncia adesso a qualche oggetto di pari valore”.
Luciana sbottò ed iniziò a litigare. La sua indole non le face esprimere apertamente la certezza che tutti loro, in quegli anni, il valore di quel leone, moltiplicato per centinaia di volte, se l’erano ampiamente mangiato ma promise ricerche retroattive su ciò che era successo nel recente passato poi, non avendo voglia di proseguire lasciò a suo marito Mauro, il compito ingrato di proseguire nel battibecco. Si sentiva un po’ in colpa però… la vita l’aveva portata ad avere una famiglia problematica ed impegni improrogabili ed improvvisi che l’avevano tenuta lontana da Roma per tanto tempo, la zia la sentiva spesso per telefono, le inviava foto, libri ma, la sua presenza sarebbe stata più opportuna… no, aveva fatto quello che la coscienza le aveva imposto, inutile guardarsi indietro. Attraversò la vasta camera da letto che un tempo aveva ospitato i genitori e i due fratelli maschi, lì zia Vera aveva riposato attorniata da una miriade di pupazzi, orsi, cani, animali di ogni sorta, sembrava la stanza di una bambina. L’attiguo locale era stato trasformato in studio, quando era piccola era la camera da letto che aveva condiviso con la zia. Un vecchio armadio nascondeva un tesoro di libri di cui “quella gente” nel salone non comprendeva il valore, vi erano delle prime edizioni e romanzi oggi introvabili.
“ Oh guarda questo l’ho letto, e le stelle stanno a guardare… di Bassani.” Sentenziò Marisa gettando il romanzo su una sedia.
“Di Cronin”. Mio Dio e quella era stata un’insegnante?
“Oh già, te ne intendi, bene potresti fare una cernita, di ciò che si può buttare e... senti per prima è una questione di correttezza…”.
“Sì, sì, lascia perdere…”
“Ma guarda…lo scialle che le ho regalato per il suo ultimo compleanno…” lo sollevò dal bracciolo del divano, dove era stato lasciato ad impolverarsi per mesi, rimirandolo a lungo “…carino vero? Lo riprendo, sai mi è costato sessanta euro”.
Il commento piccato che le salì, rapido, sulla punta della lingua fu, per fortuna, bloccato da una testa imbiancata che sbucò dal vano della porta.
“Con gli oggetti abbiamo finito, noi andiamo a prendere i quadri nel corridoio.”
Seguì l’orda ma poi fu riassalita dai ricordi, la cucina con il pavimento a piastrelle bianche e nere, oh… lì troppi flash la portavano indietro; il corridoio il cui pavimento era ricoperto di marmo verde scuro con una striscia bianca che ne contornava i lati… suo fratello Luigi usava quella fettuccia come pista per tutto ciò che rotolava o poteva essere “schiccherato” palline, biglie di vetro, i tappi della gassosa; la sala da pranzo con il caminetto, allora unica fonte di calore della casa, che portava tutti ad un raccoglimento oggi sconosciuto. Il tavolo, di marmo venato, era frutto dell’abilità del nonno: poggiava su un unico sostegno: un grosso ceppo d’albero saldamente fissato a terra che aveva resistito anche ai bombardamenti del 1943. La scrivania, dove il nonno si sedeva a leggere e a fumare (aveva le dita ingiallite dalla nicotina). Da lì sorvegliava lo svolgimento dei compiti da parte di noi ragazzi, pronto ad intervenire per un suggerimento o un aiuto. Oh il mappamondo non c’era più e neppure la zanna di facocero e… su quel muro mancava l’orologio a cucù… che tristezza.
Uscì sulla terrazza. Quello stabile era pieno d’immense terrazze. Quella sul tetto, dove una volta c’erano le fontane per lavare il bucato e dove si stendevano i panni. Quella del piano inferiore che aveva ancora le proporzioni iniziali e quella dove si trovava adesso, un mozzicone rispetto alla sua origine che la portava a fare il giro fino all’opposta facciata. In questo caso le bombe avevano avuto la meglio, lasciando solo qualche traccia dei pilastri di sostegno. Chissà se c’erano le pronipoti delle lucertole con cui giocava da bambina. Si guardò attorno, i vasi contenevano piante secche o erano vuoti: l’immagine di ciò che stava provando il suo animo.
“Lucianaaa, dove sei…vieni abbiamo diviso i quadri per soggetto…”.
“Sì, un attimo arrivo, ora sono io che devo andare in bagno, arrivo subito”.
Scomparve dietro la porta del bagno padronale ma, ne aprì subito una laterale che immetteva nella camera da letto dei nonni.
I mobili erano sempre gli stessi. I due letti gemelli affiancati, i comodini con il ripiano di marmo verde. Il mobile scrittoio che nella parte della ribalta celava un’inviolabile cassaforte. Alla morte del nonno nessuno era riuscito più ad aprirla. L’armadio a tre ante ricoperte da specchi ed il comò con specchiera, ne aprì il primo cassetto immaginandosi di aspirare l’odore della lavanda: la nonna riponeva accuratamente la biancheria che lei stessa ricamava e, in mezzo, vi metteva dei sacchetti di cotone con spighe di lavanda. Naturalmente rimase delusa, dentro c'era solo della pacchianeria abbandonata dall’ultima badante romena.
Stava assistendo alla fine di un’epoca
Si sedette sconsolata sul letto e, improvvisamente, fu avvolta da una voce, no, era più di una voce, un mix sonoro: il nonno, la nonna, zia Vera ed anche…oh, il suo papà e tutti i familiari che non c’erano più.
“Non essere triste, non crucciarti, proprio tu che non hai mai dato importanza ai beni materiali, dovresti sentire dentro di te qual è il valore più importante. Sì tesoro, è l’amore, l’affetto che ti abbiamo dato e che tu ci hai dato e allora, sorridi, le cose sono caduche i ricordi no e, stanne certa, noi continueremo a vivere nei tuoi.”
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Sono qui

“Sei quello che assomiglia di più a tuo padre, gli occhi sono proprio i suoi… forse tutto il muso tranne qui, sul naso, il tuo si assottiglia un po’…” la donna accarezzò il pelo del grosso maschio poi avvicinò il testone ad una gota e se lo strinse addosso, affettuosamente “… lui lo aveva più corto ma più largo. Come carattere però, siete uguali, sai Byron, anche tu sei un capobranco… vieni è pronta la pappa” Il rottweiler schizzò fuori dal box, entrò nel recinto adiacente e tuffò la bocca nella ciotola piena di pane e crocchette.
Luciana preparò il mangiare delle due femmine. Giada la inondò di leccate al primo suo accenno di chinarsi verso le ciotole. Gea le si appiccicò a una gamba strusciandovi con forza il muso. “Fai piano, mi fai male. Tu padre era più delicato…”.
Uffa, quella mattina non riusciva proprio a toglierselo dalla mente. Erano passate solo due settimane e la sua mancanza pesava con sempre maggiore consistenza eppure, quando la dolcissima ma professionale veterinaria aveva iniettato l’ultimo liquido in quel corpo esausto e lei aveva percepito, sotto le dita che gli aveva appoggiato sulle coste, il battito estremo, si era rilassata come il muso del suo cane che aveva ripreso, nella morte, l’espressione serena di sempre. Aveva finito di soffrire.
Non potevano avere rimorsi. Lei e Mauro avevano tentato tutto, sì proprio tutto: specialisti, cure, quella povera bestia aveva inghiottito decine di pastiglie al giorno e, quante iniezioni… alla fine erano ricorsi addirittura all'alimentazione liquida forzata. Di sicuro erano riusciti a donargli qualche giorno tranquillo, soprattutto dopo l’edema polmonare che avrebbe potuto spegnergli prima la vita “… o basta, sei circondata da tanti altri pelosi, se continui a focalizzare i tuoi pensieri su qualcuno che non c’è più rischi di sottovalutare il loro di affetto”.
Finì di pulire e aprì il recinto di Niro.
Aveva dovuto dividere i due maschi perché in un litigio si erano fatti male e Byron aveva una ferita sul collo che aveva rischiato di non chiudersi per via delle leccate del fratello. Già, prima litigavano e poi si soccorrevano a vicenda (come tutti i fratelli che si vogliono bene). Adesso sentivano la mancanza l’uno dell’altro però Byron era quasi guarito e poi, finalmente Mauro aveva accettato l’idea di far sterilizzare le femmine per cui stavano attendendo di poter formare coppie miste evitando problemi di supremazia e gelosia.
Niro era la copia di sua madre al maschile, aveva l’aspetto di una Gaia più grossa ma aveva un carattere meno testardo della genitrice, era più obbediente. Adesso il suo istinto lo avrebbe portato a saltarle addosso per abbracciarla ma Luciana riuscì a fermarlo con un comando “ Giù, mi fai cadere la pappa, vieni, giochiamo dopo.” Appoggiò il recipiente su un’asse di legno e, mentre il cane mangiava avidamente, aprì il rubinetto dell’acqua per riportarla al livello giusto nell'abbeveratoio e si dette da fare con scopa e rastrello per ripulire quello che un tempo era stato un bel giardino. Quel rottweiler, per il momento, aveva un ricovero provvisorio, non coibentato ma idoneo a proteggerlo dalla pioggia o dal troppo sole, inoltre era circondato da altri ripari naturali costituiti da numerosi rampicanti, da due alberi di fico, un albicocco e un giovane ciliegio. Non si poteva lamentare. “Oh guarda Niro, quest’anno assaggeremo anche le ciliegie...” Dei piccoli pallini ancora verdi, uniti in gruppetti da esili gambi, facevano capolino tra le tenere foglie “… meno male che siete diventati adulti e non vi divertite più a masticare i rami degli alberi, salvo che i legnetti non ve li tiri io… tieni Niro, prendi.”
Il cane afferrò al volo il ramoscello secco che Luciana gli aveva lanciato e, per una decina di minuti, si divertirono al : TIRA o RIPORTA.
“Beh, ora basta, ho Briciola e Linda da sfamare.”
Chiuse le porte dei recinti, posò il recipiente e le ciotole sul tavolo all'esterno delle gabbie e suddivise la rimanete pappa in due. Prese la razione destinata a Briciola e si avviò verso quella che era stata denominata: l’infermeria, ovvero verso una casetta di legno costruita in fretta e furia quando avevano dovuto far operare d’urgenza Briciola per una piometra. Ora la cagnetta aveva superato abbondantemente il periodo riabilitativo ma, si era adattata alla sua nuova dimora e stava attendendo di fare il cambio, nella degenza, con una delle sorelle da sterilizzare.
Passò di fianco alla fitta copertura di gelsomino e caprifoglio che ornava la parete obliqua del garage. Notò che stavano per spuntare i fiori e pensò che tra qualche giorno il verde avrebbe fatto largo al bianco e a qualche spruzzo di viola e di rosa e che l’aria si sarebbe riempita di una penetrante, intensa fragranza. Amava moltissimo quel profumo e ne aspirò il ricordo. Era così assorta in quel pensiero che percepì appena il cane che camminava aderente al suo fianco sinistro. Si riscosse quando udì distintamente il ritmico ansare “Oh, brava Gea, così va bene…”
Gea? Ma Gea era nel box. Oddio aveva lasciato aperto un cancello? Guardò in basso, non c’era nessun cane. Si girò verso il recinto. Gea era all'interno, ritta sulle zampe posteriori e le anteriori appoggiate alla rete. La stava guardando con aria interrogativa come a dire: “Ce l’hai con me?”
“Nooo, ancora le mie percezioni. Era Eros! Certo, era lui. Ma smettila con queste stupidaggini, sono solo paranoie mentali che ti portano a sentire ciò che vorresti sentire. E’ immaginazione, null'altro che immaginazione”.
Un ululato arrivò dall'alto. Gaia era affacciata al balcone e lanciava il suo segnale al branco.
I figli risposero in coro. Anche Thor, Kira ed Harlock, da dietro le finestre del piano inferiore e Linda dall'interno del suo gazebo, fecero udire la loro voce.
Un esperto le aveva raccontato che quel tipo di ululato era una sorta di marcatore di posizione. Ogni cane, in quel modo, comunicava ad un altro dove era. I suoi cani ricorrevano spesso a quel rito atavico ma, seppur abituata, in quel momento, quei lamenti collettivi le fecero venire i brividi. Aveva quasi voglia di correre via mentre si domandava: “ Chi sta guaendo accanto a me?” La sua fantasia le stava giocando brutti scherzi.
Deglutendo riuscì a farfugliare: “Basta ragazzi…” il coro scemò di tono, poi cessò “… e tu Gaia, fa la brava, tra un po’ vengo su.”
Luciana intimò a se stessa: “Sbrigati, sbrigati, meglio infilarsi in casa e mettersi a pulire o preparare il pranzo, con il volume della televisione al massimo… basta emozioni. ”
Si mise a canticchiare ad alta voce, per impedire al suo creativo cervello di lavorare troppo e di distrarla da ciò che stava facendo.
Aprì la recinzione e quindi la porta dell’infermeria arruffando con una mano il pelo della cagna che voleva schizzare fuori, poi raccolse da terra il piatto vuoto e lo cambiò con quello pieno di cibo, aggiunse acqua in una ciotola, spazzò via la polvere dal pavimento e finalmente assecondò il desiderio della quattro zampe : “Dai piccola, andiamo a fare un giretto”. Briciola non se lo fece ripetere, come una saetta nera arrivò, in un secondo, sulla soglia dell’unico pezzo di giardino che si poteva ancora chiamare tale. Quando erano cuccioli, i dodici rottweiler avevano mangiucchiato ogni traccia di verde, sia sotto forma di filo d’erba che di foglia, proprio come un’orda di cavallette, ma quella limitata zona era stata dichiarata tabù per loro e destinata al solo uso umano. Ora c’erano dei permessi speciali, per chi era malato o convalescente e Briciola, sì, ormai era guarita, però aveva diritto ad un paio di escursioni giornaliere ancora per un po’ di tempo.
La cagna si impegnò a fondo ad annusare tutta l’area, strisciò sotto i rami più bassi del tasso, fece un paio di volte il giro intorno ai trochi dei due maestosi sempreverdi che svettavano, alti più del doppio della casa, fece un bisognino solido affrettandosi a raspare, subito dopo l’erba davanti a sé per coprire l’indecenza emessa dal proprio corpo, poi le girò le spalle, si avvicinò al muretto rasentando i vasi delle rose e parve gonfiarsi, alzò la zampa posteriore destra e annaffiò per bene quei poveri fiori.
Alzò la zampa? Ma Briciola era una femmina. Veramente ogni tanto anche le femmine alzavano la zampa ma, da accucciate non come… oh ma quello era un possente maschio, aveva i muscoli di un maschio, il portamento di un maschio la testa di un… oh mamma, non aveva più la coda ma solo un moncherino di pochi centimetri e, in quella casa c’era stato solo un cane a cui avevano amputato la coda da cucciolo: Eros.
“Eros?”
Il cane si voltò e le rivolse quel sorriso che lei ricordava molto bene e che non avrebbe mai dimenticato e nella mente rivide un gioioso Eros che le leccava le gambe quando al mattino scendeva dal letto, Eros che si attaccava alla manica del suo pigiama e glielo sfilava seguendo un gioco che Mauro gli aveva insegnato. La sua gola si serrò e gli occhi le si riempirono di lacrime offuscandole la vista.
Quando riuscì a smettere di piangere Eros non c’era più. Si mosse, anche se le sue gambe erano pesanti come due ciocchi di legno. Forse aveva sognato, forse la sua debole vista le aveva giocato un terribile scherzo. Avanzò verso il cespuglio fiorito per vedere da vicino se trovava qualche traccia. Rimase allibita. Sulle foglie più basse della purpurea rosa scivolavano gocce di urina e si raccoglievano in una pozzetta di umidi fili d’erba che lo spruzzo aveva creato sul terreno. No, non era una pipì da femmina.
Un rumore la fece voltare.
Briciola sbucò fuori da sotto la siepe di lauro, percorse a folle velocità il perimetro del prato, poi scodinzolando si sedette davanti a lei e le rivolse uno sguardo carico di felicità.
“Sì bimba, il tuo papà è ancora qui, con noi.”
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Sopportazione

“Non puoi andare avanti così”.
“Ce l’hai con me?” grugnì l’uomo senza degnarsi di alzare neppure un sopracciglio verso di lei.
“Non c’è nessun altro oltre a noi, ed è proprio questo il problema”.
“Oh Cinzia, una delle tue solite lamentele. Piantala non sopporto interruzioni mentre sto leggendo il giornale”.
“Ecco la parola fatidica: sopporto. Tu non sopporti nulla e nessuno. Ti rendi conto che siamo soli? Non abbiamo più amici, non abbiamo alcun legame familiare. Tu li hai spezzati tutti, anche quelli con i miei parenti”.
“Hai voglia di litigare?” rispose l’uomo chiudendo il giornale e sbattendoselo sulle ginocchia quasi in segno di sfida”.
“No, io amo la pace e la tolleranza ma con te…mi spieghi perché te la sei presa pure con i tuoi nipoti. Bambini… che ti hanno fatto?”.
“E’ questo il motivo vero? I bambini non si toccano. Io invece i bambini non li sopporto: urlano, toccano tutto, ti riempiono di perché e poi sono figli di quella scellerata di mia sorella…”.
“Già, poveretta, un’altra delle tue vittime”.
“Vittima mia?” protestò Donato assestandosi gli occhialini che gli erano scivolati sul naso adunco fermandosi in prossimità della punta stranamente tonda, all’insù e perennemente lucida “Casomai vittima di quel buono a nulla, fannullone e racconta frottole di suo marito…”.
“Ma dai è un lavoratore, un bravo uomo…”
“Già, bravo a sfruttare gli altri, ad andare allo stadio ad urlare come un pazzo, a magiare popcorn davanti alla TV e a fare le corna a mia sorella”.
“Come fai a dire certe cattiverie, lo eviti da anni, cosa ne sai della sua vita”.
“M’informo cara, m’informo, non vivo nelle nuvole come te. Tu e la tua mania di assecondare e perdonare tutti”.
“Be, io sono in pace con me stessa”.
“Se vuoi esserlo sul serio, fammi da mangiare che ho fame” L’uomo si alzò trascinando la sua notevole mole verso la cucina.
Mangiarono in silenzio. Non per rispetto all’appetito ed al cibo che stavano gustando ma perché Donato non sopportava qualsiasi forma di rumore quando guardava la televisione. Si portava la posata alla bocca senza staccare gli occhi dal monitor e a ogni accenno di disturbo sonoro, anche involontario, era subito pronto a schiacciare il tasto del telecomando alzando al massimo il volume.
Cinzia, quella sera, attese con calma, cercando di capire quale fosse il momento più propizio, poi si decise e sussurrò:
“Devo chiederti una cosa…”
“Zitta, fammi ascoltare” disse subito lui accompagnando l’ordine con un eloquente gesto di una mano.
“Ma c’è la pubblicità”.
“Cribbio…e va bene, cosa vuoi?”
“La nostra vicina, la Tizi sai… deve andare via per una settimana e mi ha chiesto se potevamo occuparci del suo gatto…”.
“Cosa? Ma sei pazza. Io non sopporto gli animali. Fine della discussione. Punto”.
L’uomo scattò in p